Una storia della prostituzione a Modena, dalle case chiuse all’approvazione della Legge Merlin che nel 1958 le abolì definitivamente dopo una sperimentazione che nove anni prima aveva coinvolto proprio la nostra città; fino agli omicidi mai risolti degli anni Ottanta, al ruolo delle organizzazioni criminali nello sfruttamento delle donne e all’arrivo delle prostitute migranti, spesso vittime di tratta.
E’ quanto racconta “Dare voce ai silenzi, dare corpo alle ombre. Breve storia della prostituzione a Modena dal dopoguerra ai giorni nostri”, la ricerca pubblicata on line sulla piattaforma del Dondolo (www.ildondolo.it) la casa editrice digitale del Comune di Modena.
La ricerca è promossa dall’associazione culturale femminista Blu Bramante e realizzata da Neviana Calzolari con il sostegno con il sostegno del Comune di Modena e in particolare dell’allora assessorato alle Politiche sociali. L’indagine approfondisce un fenomeno ancora ben presente in città, anche se non più con le caratteristiche che conosciamo, con le donne che si prostituiscono ben riconoscibili in strada, ma più nascosto, più invisibile, e di cui, anche per questo, bisogna ricominciare a parlare.
“Dalle elaborazioni e dalle pratiche degli anni 70’ che si ribellavano agli stereotipi culturali creando ponti tra le donne, fino ad oggi – spiega Franca Ferrari, presidente dell’associazione culturale Blu Bramante – il femminismo si è sempre impegnato a decodificare e interpretare i fenomeni che con più evidenza mostrano la vera e propria espulsione delle donne dalla storia e i vincoli culturali che le incatenano a ruoli creati dal pensiero maschile per loro. La prostituzione ha sempre rappresentato, nei suoi aspetti materiali e simbolici, uno dei fenomeni di studio e dibattito. Questa ricerca – conclude Ferrari – vorrebbe tirare dei fili tra passato e presente, che aiutino i movimenti delle donne e le istituzioni a cercare e trovare risposte insieme”.
“Questa ricerca permette di conoscere la storia della prostituzione nella nostra città. È un lavoro competente, rigoroso e affrontato attraverso una lettura femminista come quella che è propria dell’associazione Blu Bramante – afferma il sindaco di Modena Massimo Mezzetti partecipando alla presentazione della ricerca in Municipio – È quindi importante avere a disposizione questo testo e sottolineo con grande piacere che è edito dalla nostra casa editrice digitale Il Dondolo, un esempio unico a livello italiano di cui dobbiamo essere orgogliosi.
Il lavoro di Neviana Calzolari – continua Mezzetti – ci conduce in un tema che va conosciuto con occhi liberi da pregiudizi e ci riporta al controllo sulla sessualità femminile in funzione esclusiva del genere maschile. Tutto questo tenendo ben presente il lavoro di donne lungimiranti come fu la senatrice Lina Merlin che, con la sua azione parlamentare, portò all’abolizione delle case chiuse.
Come Amministrazione Comunale – conclude il sindaco – siamo impegnati da tempo, grazie al lungimirante progetto regionale di Oltre la strada, ad azioni di contrasto allo sfruttamento e ci stiamo recentemente occupando, tramite il progetto InVisibile, della prostituzione che avviene al chiuso. Una ricerca che sarà quindi uno strumento importante anche per la nostra azione”.
La ricerca in sintesi
La ricerca, promossa dall’associazione culturale femminista Blu Bramante e realizzata da Neviana Calzolari con il sostegno del Comune di Modena, si è avvalsa soprattutto di documenti conservati nell’Archivio Storico Comunale, nell’Archivio di Stato, nella Biblioteca Estense e nell’Archivio di Deposito del Comune di Modena. Il testo integrale è stato pubblicato sulla piattaforma del Dondolo (www.ildondolo.it), la casa editrice digitale del Comune di Modena.
La ricerca riempie un vuoto di conoscenza relativo alla storia sociale della prostituzione a Modena dal secondo dopoguerra a oggi. Scelta non casuale, anche in considerazione del fatto che Modena è stata la prima città italiana a chiudere le case di tolleranza, nel 1949, nove anni prima dell’approvazione della legge Merlin. E sempre Modena è stata teatro, negli anni Ottanta e Novanta, di una serie di omicidi di prostitute rimasti ancora insoluti.
La ricerca ha consentito di fare luce su aspetti finora rimossi e non sufficientemente considerati di questi avvenimenti. Ad esempio, soprattutto nel secondo dopoguerra, il fenomeno delle fughe da casa di ragazze adolescenti che spesso sceglievano la strada della prostituzione o del suicidio. La prostituzione diventava uno dei possibili esiti delle fughe e del disagio esistenziale sul quale ancora poco è stato scritto e sul quale, scrive Neviana Calzolari, “occorrerebbe sviluppare un’attenzione futura con altre ricerche al fine di dare valore sociale a tante esistenze dimenticate, finite nel nulla, rendendole finalmente parte della storia di questo territorio”.
La ricerca ha evidenziato come la prostituzione tenda ad essere percepita socialmente e politicamente come un problema irrisolvibile proprio perché non si parte mai da una analisi razionale del fenomeno in sé né da un punto di vista autenticamente femminista. Piuttosto si tende, nel dibattito pubblico, a partire dai problemi che la prostituzione veicola di volta in volta: malattie sessualmente trasmissibili, moralità pubblica, radicamento sul territorio della criminalità organizzata, e sempre sull’onda delle emergenze del momento.
Attraverso un confronto storico tra la prostituzione regolamentata del secondo dopoguerra e la prostituzione privata e invisibile odierna, tra la prostituzione delle donne biologiche e quella delle donne transessuali, la ricerca ha rilevato che l’emarginazione sociale delle prostitute, da ottanta anni a questa parte, non è sostanzialmente cambiata, ha solo assunto forme diverse.
“Non è sufficiente attuare interventi di protezione e aiuto solo nei confronti delle prostitute vittime di racket – suggerisce Neviana Calzolari – ma occorre prendersi cura di tutte quelle donne che, a causa della loro condizione, si trovino in una situazione di isolamento ed emarginazione sociale. Le prostitute – aggiunge l’autrice della ricerca – devono essere riconosciute dalle istituzioni e dai servizi come donne e cittadine in una situazione a forte rischio di povertà ed emarginazione, indipendentemente dalla presenza o meno di un racket”.
La prostituzione nei secoli
di Grazia Biondi
L’interesse per la storia sociale della prostituzione è recente: se ne sono occupati innanzitutto gli studiosi dei fenomeni della marginalità e della devianza. La ricerca di Neviana Calzolari ha adottato un approccio femminista, ovvero ha considerato la prostituzione come una questione che riguarda tutte le donne in quanto funzionale al mantenimento della famiglia patriarcale e della “doppia morale” sessuale.
La famiglia patriarcale mantiene nei secoli alcuni capisaldi strutturali. Alla donna, priva di ogni capacità giuridica ed esclusa dalla vita pubblica (si può dire fino alla conquista del diritto di voto nel 1946), il diritto riconosceva un’identità solo in relazione al suo stato civile (nubile, sposata, vedova o religiosa), cioè alla sua dipendenza e riconducibilità a un soggetto maschile (padre, fratelli, marito). Tutti i divieti e le esclusioni che la colpivano erano fondati sulla tradizionale opinione di una sua “naturale” inferiorità fisica, intellettuale e morale. Ciò rendeva necessario che un maschio (padre, fratelli, marito) esercitasse un controllo permanente su di lei, in particolare per quanto atteneva alla sfera sessuale, avvalendosi dello ius corrigendi, la potestà correzionale (abrogata in Italia solo nel 1956), che legittimava anche un ricorso “moderato” alle percosse e alla fustigazione. Tale esigenza di controllo era determinata innanzitutto dalle strategie che la famiglia poteva attuare in campo matrimoniale, che richiedevano l’offerta di una donna con caratteristiche determinate dai valori condivisi da tutta la società: la verginità per la fanciulla da marito, la continenza per la vedova, la castità fuori dal matrimonio. Era il padre che decideva del destino della figlia e il suo consenso era necessario per il matrimonio “affinché le donne, il cui sesso è fragile, desiderando impazientemente l’amore non siano sedotte dai maschi, nascendo così nozze fra persone di disuguale condizione sociale”, come recitano gli Statuti modenesi del 1547.
Ma questa struttura della famiglia e del matrimonio era soprattutto determinata dal desiderio dell’uomo della certezza di una figliazione legittima che accollava alla moglie un inderogabile obbligo di fedeltà. Il diritto di reazione e di sanzione da parte del marito in caso di adulterio perpetrato dalla moglie portò a un ampio e progressivo riconoscimento del delitto d’onore (abrogato in Italia solo nel 1981). L’adulterio maschile non era invece considerato reato. La donna che violava la fedeltà coniugale veniva marchiata dall’istituto giuridico dell’infamia, che comportava non solo la riprovazione e l’emarginazione dal corpo sociale, ma anche l’esclusione da ogni tipo di protezione da parte delle autorità. In caso di violenza carnale, ad esempio, la donna pienamente tutelata dal diritto era solo quella definita “onesta”, ovvero di buona fama e in genere abbiente, poiché lo stupro si configurava come oltraggio all’onore della famiglia che ne esercitava la custodia, compromettendo i possibili orizzonti di scelta matrimoniale (in Italia lo stupro è stato rubricato dal titolo di Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume a quello Dei delitti contro la persona solo nel 1996).
Per lo stupro di una prostituta era prevista una multa corrispondente all’ammontare di una prestazione. Via via il diritto affermò e tutelò il potere della famiglia sul controllo della sessualità femminile, in particolare della verginità “configurata come un bene indisponibile da parte della donna”. Viceversa era considerato naturale e legittimo il desiderio sessuale del maschio e il suo soddisfacimento. Per questo motivo la prostituzione è sempre stata considerata un male necessario per evitarne peggiori.
Nel IV secolo Sant’Agostino scriveva: “La meretrice assolve nel mondo alla stessa funzione della sentina nella nave e della cloaca nel palazzo. Se tu toglierai la sentina o la cloaca, riempirai di fetore la nave e il palazzo. Se tu toglierai le meretrici dal mondo, lo riempirai di sodomia”. Circa dieci secoli dopo gli faceva eco San Tommaso: “La meretrice, anche ora, deve essere permessa, cioè deve essere tollerata nella città per evitare un peggior male come la sodomia, l’adulterio o altri simili misfatti. Perché è decisione appropriata del sapiente legislatore permettere le trasgressioni minori per evitare quelle più gravi, e, nei regimi umani, coloro che governano tollerano giustamente qualche male al fine che non ne capitino di peggiori”.
La tolleranza (espressione che tornerà in auge a indicare i bordelli, appunto case di tolleranza) è vocabolo che non ha affatto una connotazione positiva: accomuna infatti, non a caso, le prostitute e gli ebrei che da metà Cinquecento conosceranno entrambi la ghettizzazione, o quantomeno una ridotta libertà di movimento e di scambio con altri, e l’imposizione di marchi infamanti. Il tribunale dell’Inquisizione poi assimilava spesso le meretrici alle streghe poiché si riteneva possedessero un sapere in grado di agire sui cuori e sui corpi (i sortilegi amorosi, ma anche pratiche contraccettive o abortive). La persecuzione giudiziaria e il progetto di moralizzazione promosso dalla Chiesa post-tridentina coabitavano paradossalmente con la libertà di esercitare delle prostitute che pagavano le tasse comunali, come avveniva anche a Modena nel Quattro-Cinquecento, dove le cosiddette “mammole” esercitavano l’arte a ridosso del Palazzo Comunale. Il meretricio continuò ad essere considerato uno strumento contro il “vizio nefando” (la sodomia, da intendersi tanto come omosessualità che come rapporto “contro natura”, non destinato alla procreazione), e anche un mezzo di salvaguardia della cellula familiare e delle giovani vergini, la cui castità era minacciata dalla libido maschile, legittimata a trovare comunque uno sfogo. È sconcertante la vischiosità di tali concezioni. Fra le reazioni alla chiusura anticipata dei bordelli a Modena nel 1949, Neviana registra la posizione di assoluta contrarietà espressa in qualità di Presidente dell’Ordine provinciale dei medici dal socialista Mario Merighi, compagno di partito di Lina Merlin, preoccupato soprattutto per il conseguente dilagare dell’omosessualità: “Abbiamo la sensazione precisa che in questi ultimi tempi i casi di omosessualità sono in aumento anche nelle campagne. Non vale la ragione che è un prodotto di degenerazioni psichiche perché il fatto della difficoltà per molti di poter ricorrere ai rapporti sessuali normali fisiologici porta con sé che coloro i quali sono già nel vizio possono trovare più facile accoglimento e diffusione delle loro pratiche”. Già Lina Merlin additava nella prostituzione regolamentata dallo Stato uno “strumento per confermare una visione misogina della società e tenere così in scacco, in realtà, tutte le donne”.