“Una doverosa premessa: le regole sono fatte per essere rispettate e rimanere per un paio di settimane all’interno del proprio Comune di residenza non comporterà problemi eccessivi a nessuno. Poi però, guardando alle risposte sul sito della Regione Emilia-Romagna (che, naturalmente, non hanno un valore di legge come i Dpcm), ci accorgiamo di disparità di trattamento che francamente non capiamo”. Daniele Casolari, segretario Licom (i commercianti aderenti a Lapam) non usa la diplomazia per mettere in luce alcune evidenti incongruenze.
“Partiamo dal tema del ‘fare la spesa’ e del criterio, messo nero su bianco dalla Regione, della ‘maggiore convenienza economica’ – sottolinea Casolari -. Si legge infatti sul sito della Regione: ‘Gli spostamenti verso Comuni diversi da quello in cui si abita sono vietati, salvo che per specifiche esigenze o necessità. Fare la spesa rientra sempre tra le cause giustificative degli spostamenti. Laddove, quindi, il proprio Comune non disponga di punti vendita o nel caso in cui un Comune contiguo al proprio presenti una disponibilità, anche in termini di maggiore convenienza economica, di punti vendita necessari alle proprie esigenze, lo spostamento è consentito entro tali limiti che dovranno essere autocertificati’. Bene, ma allora perché la spesa sì e le attività di artigianato di servizio (lavanderie, parrucchieri e barbieri, autoriparatori, solo per fare qualche esempio) no? Sembra quasi che questa interpretazione finisca col favorire la grande distribuzione a scapito dei negozi di vicinato che, è opportuno ricordarlo, durante il lockdown hanno dimostrato la loro importanza fondamentale anche come presidio del territorio e che, oggettivamente, sono anche più sicuri sotto il profilo sanitario con l’ingresso contingentato”. Il segretario Licom aggiunge: “Questo in Emilia, mentre in altri territori, penso a Brescia, Sondrio, Bergamo, Cuneo…, i prefetti hanno operato scelte diverse. Ripeto: le regole ci sono, facciamole rispettare e sarà tutto più chiaro e lineare”.
Il segretario Licom introduce poi un altro problema: “Durante il primo lockdown alcuni ristoranti avevano avuto l’autorizzazione a rimanere aperti per il servizio mensa nei confronti di attività manifatturiere (ad esempio ceramiche) con una convenzione contrattualizzata. Oggi un ristorante che fa questo servizio mensa anche se contrattualizzata non può lavorare. Possono stare aperte solo attività che hanno il codice Ateco da mensa, ovvero pochissime. Questo rappresenta un problema per tanti lavoratori che non hanno una mensa aziendale, nemmeno i locali adeguati per consumare il pasto, e che si trovano a non poter andare nei locali che, anche nel pieno del lockdown, hanno fornito un servizio prezioso. Riteniamo quindi – conclude Casolari – che si debba procedere con le modalità attivate nel lockdown di marzo, come da prassi a suo tempo indicata dalla prefettura, che ci sembrano improntate al buon senso e in grado di dare un risposta ad imprese e lavoratori rispettando le norme e i protocolli Covid-19”.