La deregulation degli orari commerciali non può essere derubricata come un
“naturale” approdo di una società che si evolve. Né si tratta di un obbligo
derivante da normative europee, come a volte si sente dire.
L’Italia è diventata l’unico paese in Europa dove non esistono regole
rispetto agli orari del commercio e dei pubblici esercizi, e ciò è dovuto
essenzialmente alle pressioni della potentissima lobby della Grande
Distribuzione, privata e cooperativa.
La gran parte degli addetti del commercio sono donne, che si arrabattano
nella difficile arte di conciliare famiglia e lavoro, in un settore dove
gli orari individuali già oggi cambiano continuamente per adattarsi alle
esigenze del lavoro.
Dove spesso vigono ricatti di ogni tipo, quello occupazionale per primo.
In un settore dove trionfa la precarietà e dove, nel piccolo commercio,
cresce il lavoro nero ed irregolare, arriva una estensione di orari che
sulle lavoratrici potrebbe essere un’autentica mazzata.
I segnali ci sono tutti. Si annunciano dimissioni di lavoratrici con figli
che non hanno una rete familiare che consenta di conciliare vita e lavoro.
Una persona che non lavora, che a trent’anni si ritira dal lavoro, o che
precipita nel vortice del lavoro nero è un enorme costo per la
collettività.
Nessuna impresa che ha iniziato o inizierà ad aprire tutte le domeniche ha
in programma l’assunzione di lavoratori. La risposta verrà data con la
“flessibilità” interna. E chi non potrà essere “flessibile”? La domenica
sono forse aperti gli asili? Funzionano a pieno regime i trasporti
pubblici? No, ma così dovrà accadere. E chi sosterrà quei costi? Certamente
non la Grande Distribuzione.
In una società che decide di non avere più l’interruzione settimanale, la
giornata di riposo comincia a diventare un lusso intollerabile destinato a
pochi privilegiati.
Il giorno del riposo, della famiglia, dei culti, del volontariato, della
cultura, del rallentamento, della riflessione diventerà un residuo del
passato, sommerso dalle musiche di sottofondo di un centro commerciale.
E’ un modello di società povero e frantumato, dove l’identità collettiva è
sostituita dal consumo di merci; una società sazia ma disperata, dove
sull’altare dell’economia può essere sacrificata ogni cosa. Dove il Natale
è un giorno come un altro, dove la Storia di una comunità e di un Paese
soccombe a fronte di un buon incasso.
E’ una società dove molte donne saranno costrette ad abbandonare il lavoro
ed a tornarsene a casa, od a convivere con una eterna precarietà
esistenziale.
Il silenzio assordante della politica modenese su di una vicenda che solo
nella nostra provincia cambia la vita di migliaia di persone è il segnale
di una preoccupante distanza dalla realtà del ceto politico nostrano.
Oppure no, è semplicemente una scelta di campo.
Un campo sbagliato, s’intende.
(Marzio Govoni – Filcams Cgil Modena, Liliana Castiglioni – Fisascat Cisl Modena, Lorenzo Tollari – Uiltucs Uil Modena)