Un nuovo studio guidato dall’Università di Modena e Reggio Emilia e dall’Università di Padova, in collaborazione con le università di Yale, Swansea e il Museo di Storia Naturale di Bamberg, ha gettato nuova luce sulle abitudini alimentari e riproduttive delle tartarughe marine, sia a livello attuale che fossile, con risultati sorprendenti.
Il team internazionale, composto dal Dr. Giovanni Serafini (Unimore), dal Dr. Caleb Gordon (Yale University), dal Prof. Luca Giusberti, dal Dr. Jacopo Amalfitano (UniPd), dal Dr. Oliver Wings (Bamberg SNM), dalla Prof. Nicole Esteban e dalla Dott.ssa Holly Stokes (Swansea University) ha infatti investigato il misterioso fenomeno della geofagia, l’ingestione di sedimento, spesso deliberata, da parte di animali. Il comportamento, comunemente osservato in tutti i principali gruppi di vertebrati, era stato in passato scarsamente riportato nelle tartarughe marine, e mai segnalato in esemplari fossili. Il nuovo studio di Serafini et al. (2024), attraverso la coniugazione di paleontologia, biologia marina e fisiologia, ha colmato questa lacuna, evidenziando il fenomeno in questo gruppo di animali e tracciando la sua evoluzione nel passato remoto.
Tutto è partito dall’analisi dei resti fossili di una grande tartaruga marina risalente al Cretaceo Superiore (circa 90 milioni di anni fa) rinvenuti nelle vicinanze di S. Anna d’Alfaedo (Verona). Il reperto è stato estratto da una cava di ‘lastame’ nei primi anni 2000, un’unità stratigrafica celebre in Veneto per il suo uso ornamentale e che in passato ha restituito fossili marini del Cretaceo Superiore, tra cui squali giganteschi, mosasauri (rettili acquatici affini ai varani e ai serpenti) e tartarughe. Durante la descrizione dell’esemplare conservato presso il Teatro Comunale di S. Anna d’Alfaedo, il team di paleontologi ha notato la presenza di dieci ciottoli raggruppati all’interno dello scheletro della tartaruga.
“Questi ciottoli non appartengono al sedimento del fondale marino in cui si è depositato il lastame “afferma Luca Giusberti, professore di paleontologia e geologia dell’Università di Padova, “ma sono un chiaro esempio di clasti alloctoni, ossia originati in un contesto geologico diverso e trasportati successivamente nel deposito in cui vengono ritrovati. A volte i ciottoli, provenienti dal continente, possono essere trasportati dalle radici di alberi galleggianti alla deriva, ma trovarli all’interno di resti scheletrici di un animale marino suggerisce una spiegazione diversa.”
Infatti, il team ha immediatamente ipotizzato che i ciottoli, più o meno tutti delle stesse dimensioni, potessero essere gastroliti, pietre ingerite dalla tartaruga e conservate nel suo tratto alimentare. La presenza di gastroliti è comune in molti rettili marini come i plesiosauri, ma non è mai stata osservata nelle tartarughe, portando gli scienziati ad ipotizzare in passato che il gruppo non facesse ricorso a questa pratica.
“L’esemplare in esame è affine ai protostegidi” commenta Jacopo Amalfitano, paleontologo collaboratore del Centro di Ateneo per i Musei dell’Università di Padova, “un gruppo di grandi dimensioni esclusivo del periodo Cretaceo. Questo gruppo di tartarughe è rappresentato nel Cretaceo del Veneto dal genere Protosphargis, il cui primo esemplare, descritto da Giovanni Capellini, fu scoperto nelle cave di lastame a metà del XIX secolo”.
La natura di gastroliti è stata confermata da analisi morfometriche sui ciottoli rinvenuti dentro alla tartaruga che hanno registrato valori dimensionali e forme arrotondate perfettamente consistenti con altri gastroliti descritti in passato. L’esemplare di Sant’Anna d’Alfaedo rappresenta quindi il primo caso al mondo di una tartaruga fossile con gastroliti associati. Analisi al microscopio elettronico (SEM) hanno inoltre rivelato come alcuni dei dieci ciottoli sono composti da carbonato di calcio, mentre altri da silice.
Per comprendere meglio la funzione dei gastroliti nelle tartarughe marine, l’analisi è stata successivamente spostata a livello comparativo sulle forme attuali. Attraverso la collaborazione con biologi marini specializzati nelle abitudini alimentari delle tartarughe moderne, sono stati ri-analizzati i contenuti stomacali di tartaruga verde (Chelonia mydas) raccolti in passato nelle Seychelles, rivelando la presenza di occasionali gastroliti, per la prima volta figurati in questo studio. Una correlazione sorprendente è stata dunque osservata: i rari casi di tartarughe attuali che hanno ingerito sedimento rappresentano quasi esclusivamente femmine gravide.
“Al momento la teoria più accreditata è che le femmine ingeriscano substrati rocciosi nel tentativo di supplementare il calcio usato nella formazione del guscio delle uova” afferma Giovanni Serafini, biologo e paleontologo dell’Università di Modena e Reggio Emilia, “Al momento non possiamo totalmente escludere che l’esemplare di S. Anna d’Alfaedo abbia ingerito i ciottoli in modo accidentale o come sussidio alla digestione, tuttavia il comportamento delle tartarughe marine attuali suggerisce fortemente un nesso tra geofagia e produzione delle uova.”
Questa osservazione potrebbe implicare che l’esemplare fossile fosse una femmina in fase riproduttiva, e che avesse ingerito i ciottoli per reintegrare il calcio perduto per la produzione delle uova. Non a caso i ciottoli osservati hanno un’origine continentale, molto probabilmente da una spiaggia o un estuario, luoghi visitati dalle tartarughe marine durante la nidificazione.
La scoperta ha delle importanti implicazioni sull’evoluzione di questo comportamento all’interno di Chelonioidea (il gruppo che comprende i protostegidi estinti e le tartarughe marine attuali), suggerendo che la geofagia legata alla fisiologia riproduttiva sia tracciabile nel gruppo almeno fin dal Cretaceo Superiore. La specificità di questo comportamento giustifica anche la rarità dei gastroliti nelle tartarughe marine fossili, poiché le pietre ingerite possono essere trovate solo in individui femmina, sessualmente maturi, in stagione riproduttiva e prossimi alla nidificazione.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista ‘Plos One’, disponibile in open access: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0302889