Sabato 28 gennaio, alle 20.30, nell’aula magna della scuola secondaria “C. Frassoni” di viale della Rinascita, in occasione della “Giornata della Memoria”, l’Amministrazione Comunale, in collaborazione con Alma Finalis, propone lo spettacolo “Nell’inferno di Dachau”.
Le memorie del finalese Giulio Baraldini sopravvissuto ai campi di concentramento sono diventate un recital grazie a Emanuela Sgarbi e Maria Pia Garutti del Tentativo Gruppo Teatro e all’accompagnamento musicale di Francesco Boni.
Ingresso libero fino a esaurimento posti.
Quella di Giulio Baraldini è una figura che probabilmente solo pochi finalesi conoscono. Il suo percorso di vita e le vicissitudini che ha dovuto affrontare in gioventù lo rendono, a tutti gli effetti, un personaggio meritevole di essere ricordato. A riportarne il ricordo a Finale Emilia, sua città natale, sono stati i nipoti acquisiti Anna Maria e Roberto Galavotti, Ettore e Giancarlo Mitola, che si sono impegnati a far conoscere la sua storia.
Decorato della medaglia della Liberazione, conferitagli dal ministero della Difesa il 25 aprile 2016, Baraldini è uno dei sopravvissuti al campo di concentramento di Dachau, il primo lager nazista.
Giulio Baraldini era nato a Finale Emilia il 2 marzo 1921 e portava il cognome della mamma. A 7 anni, dovette seguirla a Lucca, città in cui la donna si trasferì per lavoro e dove Giulio frequentò la scuola elementare.
Appreso il mestiere di sarto, nel 1940, ad appena 19 anni, partì per il militare. Nel 1941 partecipò alla Campagna di Russia, dalla quale, in modo rocambolesco e fortunato, riuscì a tornare nel 1943.
“Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 – scrive nel suo testo ‘Nell’inferno di Dachau. Memorie di un superstite dei campi di sterminio nazisti nella guerra mondiale 1940-1945’, raccolto dalla nipote Rossana Baraldini nel volume ‘Il poeta di Dachau’, che include anche la corrispondenza del nonno Giulio e le sue poesie – fuggii dalla caserma Carlo Ederle di Verona e mi diedi alla macchia, cioè mi buttai sbandato. Arrivato a Garda riuscii a scambiare la mia divisa con degli abiti civili e così, senza dar nell’occhio, feci ritorno a Finale Emilia a casa di uno zio, decisione questa che col senno di poi non avrei dovuto prendere. Farsi vedere in giro infatti in quel periodo era pericolosissimo. Ed il pericolo era in agguato anche per me. Per colpa di due prigionieri dei tedeschi, due russi che avevano tradito la loro patria collaborando con gli ex nemici, fui infatti nel giro di pochi giorni arrestato”.
Così Baraldini racconta dettagliatamente l’episodio della sua cattura: “Costoro, di passaggio nel mio paese con dei lunghi carri trainati da imponenti cavalli, essendo iniziati i bombardamenti aerei proprio mentre transitavano per il viale che portava al cimitero, si erano nascosti al riparo dei grossi alberi che lì si trovavano. Poiché anch’io ero lì presente, sentitili parlare in una lingua, la russa, che io, per essere stato durante la guerra in corso 18 mesi in Ucraina, conoscevo bene, ebbi la dabbenaggine di salutarli e di abbozzare un colloquio. Questi soldati russi, che indossavano delle vecchie divise tedesche prive di stemmi, compiaciuti del mio saluto, si finsero amici a tal punto che, durante la loro permanenza in paese, li accompagnai anche a casa di un mio zio partigiano, del quale io ero ospite, presso il quale per ben due sere cenammo tutti assieme. Lo zio mi incaricò di convincerli ad abbandonare l’esercito tedesco e ad aggregarsi ai partigiani del luogo nascondendosi in montagna”.
Purtroppo per Baraldini, la proposta non solo non viene accettata, ma diviene il pretesto per il suo arresto, che verrà eseguito qualche sera dopo. “E ciò avvenne – scrive Baraldini – all’uscita dal cinema del paese dove mi ero recato ad assistere ad uno spettacolo di varietà. Nel corso del trattenimento dalla galleria, dove io avevo preso posto, vedendo in platea i miei due amici parlottare tra loro e ogni tanto gettare uno sguardo su di me, ebbi un presentimento che divenne poco dopo realtà. All’uscita infatti venni arrestato con l’accusa di essere un partigiano”.
Qui comincia l’odissea di Baraldini: portato al comando tedesco e messo a confronto con i delatori, viene interrogato e preso a schiaffi poi indirizzato alla prigione di Finale, dove è nuovamente interrogato e accusato di tradimento. Il mattino successivo, in treno, viene trasferito al carcere di S. Giovanni in Monte a Bologna.
Nella notte, però, un bombardamento sulla città colpisce anche il carcere e i prigionieri vengono evacuati. Quelli politici sono portati a Verona e quindi rinchiusi a Forte S. Mattia sulle colline, dove riprendono i maltrattamenti fisici e morali. Maltrattamenti che proseguono nel penitenziario di Castelfranco Emilia, dove Baraldini viene tradotto.
“Una notte, era il 29 febbraio 1944, le guardie vennero a svegliarci – racconta Baraldini – e chiamarono 18 di noi. Io pensai che fosse giunta la nostra fine. Fummo invece condotti nuovamente presso il comando di Verona dove subimmo un duro e crudo interrogatorio da parte delle SS e dei fascisti, i quali, alla fine decisero la nostra sorte, e cioè la deportazione in Germania”.
A Dachau arriva, dopo un viaggio interminabile e inimmaginabile, il 2 marzo 1944, giorno del suo ventitreesimo compleanno. Il racconto di Baraldini prosegue poi con la nuda e cruda descrizione delle violenze subite, dei diversi tentativi di fuga a cui assistette e di tutto ciò che avvenne a Dachau e nei lager limitrofi, dove periodicamente veniva trasferito.
Le sofferenze per Baraldini si attenuano leggermente quattro mesi prima della liberazione, quando i tedeschi scoprono le sue capacità di sarto. Da quel momento viene assegnato alla sartoria del campo, dove si occupa della riparazione delle divise e del vestiario delle guardie, oltre a eseguire i rattoppi sugli indumenti tolti ai prigionieri deceduti.
“L’essere esonerato dai lavori pesanti e l’avere un po’ di cibo in più, quella situazione cioè di privilegio, determinò la mia vita – scrive Baraldini – proprio nel momento in cui si stavano manifestando in me i primi cedimenti”.
Finalmente, il 29 aprile 1945 arriva la liberazione e il 22 giugno Giulio Baraldini può rientrare in Italia: il suo peso è di 34 chili.
“Ai figli e ai nipoti – conclude il suo racconto scritto nell’aprile del 1965, vent’anni dopo la liberazione – ricordo che in quel lontano 2 marzo 1944, giorno del mio 23° compleanno, mi vennero tolti il nome, l’anima e la personalità e in loro sostituzione mi venne imposto ed impresso un numero, e precisamente il numero di matricola 64825”.
Tornato a Finale, duramente segnato dall’esperienza vissuta, Baraldini si sposa ed ha due figli: Vittorio nel 1947 e Massimo nel 1948. Il parto di quest’ultimo risulta però fatale per la moglie Iride Baraldi.
Nel 1960, Giulio Baraldini si risposa con Maria Galavotti e si trasferisce a Terranegra di Legnago dove apre un lavasecco.
Nella cittadina veronese vivrà fino alla morte, sopraggiunta il 27 dicembre 2016 a 95 anni, conservando il doloroso ricordo della gioventù svanita in un lager e forte della consapevolezza che ciò che era avvenuto non poteva essere dimenticato. Tanto che Baraldini si impegnò a lungo nella trasmissione della memoria dei tragici eventi di quel periodo alle nuove generazioni, non solo attraverso i suoi diari e le sue poesie, ma andando a raccontare nelle scuole ciò di cui fu vittima.