C’è un’idea nata e sviluppata settant’anni fa all’Università di Bologna alla base del James Webb Space Telescope, il rivoluzionario telescopio nato da una collaborazione tra le agenzie spaziali di Europa (ESA), Stati Uniti (NASA) e Canada (CSA) che sta per essere lanciato in orbita a bordo del razzo Ariane 5 dallo spazioporto europeo di Kourou, nella Guyana Francese.
Il grande specchio del nuovo telescopio ha un diametro di 6,5 metri, molto maggiore di quello del suo “fratello minore”, lo Hubble Space Telescope, che misura solo 2,4 metri. Con una differenza sostanziale: lo specchio del telescopio Hubble è composto da un pezzo unico, mentre quello del James Webb Space Telescope è formato da 18 tasselli esagonali che unendosi tra loro come in un mosaico vanno a ricomporre la superficie riflettente.
A ipotizzare e mettere in pratica per la prima volta questa soluzione modulare – che permetterà di trasportare nello spazio, ripiegandola su sé stessa, una struttura tanto imponente – fu Guido Horn d’Arturo, astronomo e intellettuale triestino che cento anni fa, nel 1921, fu chiamato a dirigere l’Osservatorio Astronomico di Bologna, dove oggi sorge il Museo della Specola del Sistema Museale di Ateneo.
E proprio all’interno della Specola di Bologna si trova ancora oggi, esattamente nel luogo in cui lo mise Guido Horn, lo specchio a tasselli esagonali che completò nel 1952 e che utilizzò per realizzare migliaia di osservazioni astronomiche, testimoniate da una collezione di 17.000 lastre fotografiche.
“L’idea nacque dopo il 1931, quando fu annunciato il progetto di un telescopio sul monte Palomar, in California, il cui specchio sarebbe stato il più grande del mondo, composto da un pezzo unico con un diametro di 5 metri: Guido Horn d’Arturo capì subito che si trattava dell’ultima impresa di un’epoca al tramonto”, spiega Paola Focardi, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna e coordinatrice scientifica del Museo della Specola. “La soluzione che Guido Horn ideò per superare quel modello era basata su una serie di specchi più piccoli che potessero unirsi a formare la struttura completa, come i tasselli di un mosaico, e per provarne la fattibilità si mise subito al lavoro all’Osservatorio Astronomico di Bologna”.
Non fu un’impresa facile. Oltre alle tante difficoltà pratiche e alle incomprensioni della comunità scientifica dell’epoca, il progetto fu fermato bruscamente anche dalle leggi razziali, che costrinsero Guido Horn d’Arturo ad allontanarsi dall’università dal 1938 al 1945. L’impresa fu completata solo nel 1952 e il risultato è lo specchio a tasselli che si può vedere ancora oggi al Museo della Specola.
Il grande specchio montato sul James Webb Space Telescope riprende ora quell’idea realizzata per la prima volta settant’anni fa, e la porta in orbita. I 18 tasselli esagonali sono stati ripiegati per poter entrare nel razzo Ariane 5, ma due settimane dopo il lancio, una volta in orbita, il telescopio comincerà a prendere forma. Dopo che saranno stati spiegati i diversi strati dello scudo termico, i tasselli si apriranno e si congiungeranno per ricomporre la struttura finale.
Mentre Hubble osserva l’universo con uno specchio di 2,4 metri di diametro e a circa 400 chilometri di distanza dalla Terra, il telescopio James Webb avrà così a disposizione uno specchio di 6,5 metri di diametro e orbiterà a oltre 1,5 milioni di chilometri dal nostro pianeta: una combinazione di elementi che ci permetterà di fare grandi passi avanti nella comprensione dell’universo.
“Il James Webb Space Telescope è atteso con grande trepidazione perché consentirà di ampliare in tutte le direzioni l’orizzonte cosmico fino ad oggi conosciuto“, spiega Andrea Cimatti, direttore del Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Alma Mater. “La sua potenza permetterà di vedere per la prima volta la fase misteriosa in cui l’Universo passò dal buio più completo alla luce delle primissime stelle. Inoltre, grazie alla sofisticata strumentazione a bordo, sarà possibile studiare pianeti, stelle e galassie con un livello di dettaglio mai raggiunto prima. Stiamo per assistere a un cambiamento epocale della nostra conoscenza, analogo a quando Galileo per la prima volta osservò il cielo con un telescopio”.
Con il James Webb Space Telescope sarà infatti possibile osservare per la prima volta lontanissime stelle e galassie nel momento in cui si stanno formando, a soli 200 milioni di anni dopo il Big Bang. Questi sistemi così lontani da noi nel tempo e nello spazio sono rimasti fino ad oggi al di fuori dal campo di indagine di Hubble perché, oltre ad essere molto debole, la radiazione da loro emessa viene spostata dalla banda visibile a quella infrarossa. Il telescopio James Webb, sarà quindi una ‘macchina del tempo con visore infrarosso’ capace per la prima volta di abbattere questa barriera.
Non solo: guardando all’universo più vicino a noi, le osservazioni in banda infrarossa del nuovo telescopio saranno cruciali per poter vedere attraverso le enormi nubi di polvere dove si formano le stelle e i sistemi planetari. E James Webb osserverà anche per la prima volta, con dettagli mai ottenuti prima, la composizione delle atmosfere nei pianeti extrasolari, da cui potrebbero arrivare i primi segni della presenza di vita extraterrestre.
Tutto questo anche grazie all’idea ideata e sviluppata all’Università di Bologna da Guido Horn d’Arturo. Il quale, nella sua mente visionaria, aveva già immaginato l’arrivo del James Webb Space Telescope. In un articolo pubblicato nel 1966 sulla rivista Coelum, infatti, scriveva: “L’impossibilità di ottenere immagini meglio definite, finché si rimane dentro l’atmosfera, spinge l’astronomo a portare i mezzi ottici fuori dell’atmosfera. Essendo uno degli ostacoli il gran peso dello specchio, si finisce per ricorrere allo specchio a tasselli che con il piccolo spessore di ciascun tassello permette di ottenere grandi superfici riflettenti relativamente poco pesanti”.