C. Argilli, L. Serri, D. Dieci, D. Stefani

La società modenese, riflettendo quanto avviene in tutto il Paese, si sta confrontando con la necessità sempre più crescente di organizzare e immaginare risposte radicali al fenomeno di aumento dei bisogni sociali, assistenziali e sanitari. In particolare, si sta assistendo ad un progressivo invecchiamento della popolazione, al cambiamento degli stili di vita e all’aumento che ne consegue della necessità di sostegno e assistenza sia per gli anziani che per i lavoratori impegnati nel settore delle cure.

 

Il contesto

Al 1° gennaio 2021, la popolazione residente nella provincia di Modena ammonta a 706.468 abitanti. Se osserviamo le dinamiche demografiche degli ultimi vent’anni, registriamo come la popolazione compresa tra 65-74 anni sia aumentata del 17,0% e quella superiore a 75 anni abbia visto un incremento pari addirittura al 35%. In termini assoluti, stiamo parlando sul territorio provinciale di 163.320 persone con un’età pari o superiore ai 65 anni.

Se osserviamo invece il peso percentuale di queste fasce d’età, vediamo come al 1° gennaio 2021 nella provincia di Modena i residenti di almeno 75 anni costituiscano l’11,8% del totale, valore inferiore di circa un punto percentuale rispetto a quello emiliano-romagnolo (12,7%): è utile considerare che l’incidenza della popolazione cosiddetta grande anziana venti anni fa, nel 2000, era di 2,5 punti percentuali inferiore (9,3%) e che fino al 1995 era inferiore all’8%.

Dal punto di vista delle politiche territoriali, in risposta a quella che potremmo definire la crescente multidimensionalità dei bisogni, uno scenario di questa natura dovrebbe spingere sempre più verso la costruzione di una nuova concezione di welfare pubblico, che sia capace di rispondere a esigenze di carattere sociale, sanitario, assistenziale. In tema di assistenza famigliare, declinare questo obiettivo vorrebbe dire, quindi, sviluppare nei vari territori un incrocio di bisogni e cura dell’assistenza famigliare a piena e totale gestione pubblica. Nel contempo, promuovere attività di informazione e orientamento sull’offerta locale, sostenere l’integrazione, la qualità e la continuità assistenziale attraverso una circolarità di interventi domiciliari e residenziali (temporanei o permanenti), in relazione alla valutazione dei bisogni dell’anziano, attraverso attività di presa in carico dell’assistito e, ove necessario, di tutoraggio.

L’attività di cura ha bisogno di essere accompagnata e sostenuta, anche in termini economici, affinché la valorizzazione del suo ruolo all’interno della società sia piena e riconoscibile, sia in termini di competenze che in termini di qualità del lavoro.

In Italia, però, i servizi di assistenza agli anziani non-autosufficienti gestiti da servizi pubblici, o da questi  esternalizzati, sono marginali rispetto all’effettivo fabbisogno della popolazione geriatrica ad alto rischio di non autosufficienza (o già disabile).

La committenza pubblica in Italia pianifica ed orienta una parte residuale del welfare “reale”, lasciando le famiglie sole a ricostruire l’offerta complessiva (pubblica e privata, formale e informale, legale e illegale) che possa soddisfare il loro bisogno di assistenza e di cura in particolare per i non autosufficienti a domicilio.

Non sfugge che le criticità del sistema attuale, tutte riscontrabili nelle varie modalità con le quali i diversi enti locali articolano l’offerta in provincia di Modena, si possono individuare in una forte frammentazione istituzionale, dove manca un livello di governo che ricomponga gli interventi sul singolo utente o sulla singola famiglia; scarso o nullo riconoscimento del valore sociale, professionale ed economico del lavoro di cura, né una considerazione vera e propria delle condizioni di particolare fragilità delle donne (soprattutto straniere) che effettuano lavori di assistenza; governance limitata da parte del pubblico; disallineamento verticale del governo del sistema; scarsa efficacia nella gestione delle risorse economiche e nel controllo delle stesse anche quando queste derivino da trasferimenti pubblici.

Lo scarso controllo esercitato dal pubblico nella gestione dell’incrocio tra bisogni e cura nel campo dell’assistenza famigliare lascia però scoperto un mondo che vede crescere costantemente i propri numeri. Secondo l’osservatorio sui lavori domestici dell’Inps, infatti, in provincia di Modena si contano 13.425 lavoratori domestici nel 2020 di cui 8.162 “badanti”, con un deciso aumento rispetto all’anno precedente (quasi 1.000 in più). Tra questi, 12.075 sono donne mentre ammontano a 10.800 le persone di nazionalità non italiana. Sono dati da “prendere con le molle”, in quanto fanno riferimento esclusivamente ai lavoratori che hanno avuto nel corso dell’anno almeno un contributo versato, quindi che hanno avuto nel corso dell’anno una forma di regolarizzazione del rapporto di lavoro, senza contare che per effetto del percorso di emersione del lavoro irregolare introdotto proprio nel 2020 non è da escludere un effetto trascinamento in alto sui dati complessivi.

Anche i dati relativi alle retribuzioni e all’orario medio settimanale rappresentano in maniera molto evidente la complessità e la frammentazione di un mercato del lavoro che si muove in un campo fortemente deregolamentato, dove la retribuzione (dichiarata) può oscillare tra cifre inferiori a 1.000 euro fino a 13.000 ed oltre. Così come l’orario medio settimanale, che si distribuisce in maniera abbastanza omogenea su quasi tutte le classi orarie (da 4 a 60 ore), con un picco in corrispondenza della classe oraria 50-59 ore medie settimanali, in cui si  collocano 3.725 lavoratori.

Si tratta ovviamente di dati che soffrono di numerose variabili, rispetto al tipo di risposta ai bisogni, rispetto alla corposità del part-time e rispetto al grado di emersione della prestazione lavorativa, in tutto o in parte. Ma aiutano a rendere un’idea complessiva di come questo particolare settore viva una condizione estremamente sfaccettata, complessa e senza un perimetro di regole ben definito.

 

Il progetto e le proposte

La riflessione, che avanziamo all’attenzione delle istituzioni pubbliche e ai soggetti che animano il dibattito politico del territorio, nasce dalla necessità di organizzare una risposta organica, giusta, di qualità e accessibile al bisogno delle famiglie di trovare un supporto al lavoro di cura nei confronti dei cari non autosufficienti, cogliendo l’infinita gamma di gradazione della non autosufficienza. Tra l’autosufficienza e la non autosufficienza grave, infatti, ci sono molti passaggi intermedi, ai quali si può rispondere in forma innovativa con strumenti leggeri, flessibili e personalizzati che privilegiano la soluzione domiciliare con gradi crescenti di protezione, proprio perché l’assistenza domiciliare può garantire una risposta innovativa e capillare alla multidimensionalità dei bisogni di cura e assistenza.

Centrale deve quindi essere il ruolo dei servizi sociali e dell’assistenza sociale, punto nevralgico di questo nuovo modello che vede in capo al pubblico la valutazione del bisogno della famiglia, la composizione e la gestione di una lista distrettuale di assistenti famigliari qualificati, accreditati e formati, la costruzione di un progetto individualizzato attraverso la definizione dell’incontro tra bisogni e cura, il tutoraggio e il sostegno alle famiglie nel percorso di regolarizzazione, avvalendosi in questo della consulenza e del supporto di società di servizi convenzionate, di assoluta affidabilità e regolarità e gestite attraverso specifici albi.

Entrando più nello specifico, la tenuta e l’aggiornamento di un albo distrettuale dei caregiver professionali formati o conosciuti dai servizi potrebbe favorire il supporto qualificato alle famiglie nella scelta della prestazione professionale che meglio si adatti alle esigenze di assistenza espresse, nella ricerca di un equilibrio non tanto – o non solo – a livello di caratteristiche personali del caregiver o dei caregiver professionali individuati, ma di pacchetto di prestazioni di cura in grado di rispondere ai bisogni rappresentati dalla famiglia.

Inoltre, un albo distrettuale deve essere elemento di garanzia rispetto agli standard qualitativi e formativi da mettere a disposizione al fine di arricchire le competenze dei caregiver e contemporaneamente garantire un livello prestazionale di sempre maggiore qualità, anche a fronte della trasformazione dei bisogni di cura.

L’analisi di queste trasformazioni può portare con sé la valutazioni anche della durata e della flessibilità delle prestazioni individuate, al fine di cogliere sempre più quel sottile equilibrio che esiste tra i differenti livelli di non autosufficienza e/o fragilità.

A questo percorso di accompagnamento devono per forza affiancarsi forme di monitoraggio e supporto del lavoro del caregiver professionale tramite l’assistente sociale e un assistente domiciliare (OSS) opportunamente formato e la realizzazione di ulteriori momenti formativi per l’approfondimento e/o l’aggiornamento di coloro che sono già inseriti nell’albo distrettuale dei caregiver con percorsi di attestazione e certificazione delle competenze maturate sia in aula che sul campo. La valorizzazione di queste professionalità, e se vogliamo il cambio culturale della percezione stessa della professione, attraverso una qualificazione del contenuto del lavoro e del suo riconoscimento anche sociale oltre che economico, può rappresentare un rilancio per la sua capacità di creare occupazione.

Per facilitare ed estendere l’accessibilità al servizio, nodo con il quale i modelli esistenti si scontrano nel territorio provinciale, si propone di costruire un modello che preveda la possibilità di un sostegno anche economico da parte degli Enti Locali, con caratteristiche progressive, legato all’intensità e alla durata delle prestazioni di cura individuate nel momento della presa in carico.

Questo supporto di carattere economico può prevedere un contributo volto a rendere possibile il sostegno da parte delle società di servizi convenzionate alle famiglie nella gestione degli adempimenti amministrativi necessari per il percorso di regolarizzazione dell’assistente familiare (attivazione del contratto, elaborazione della busta paga, sostegno legale, chiusura del contratto).

Tutto quanto proposto deve essere subordinato e condizionato all’obbligo categorico di  applicazione del CCNL nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, in tutte le loro parti. In aggiunta a questo, condizione deve essere la previsione di momenti formativi, informativi e di consulenza sulla normativa legata ai contratti di lavoro, sui diritti di cittadinanza, sull’accesso ai servizi pubblici.

Potremmo dire, in sintesi, che il modello si struttura attorno ad alcuni assi portanti: messa a sistema delll’assistenza familiare privata integrandola nei servizi territoriali; aumentare la qualificazione del lavoro di cura dei caregiver professionali e familiari; qualificare l’investimento della famiglia; favorire l’emersione del lavoro nero; mediare tra famiglia e assistente familiare professionale; sviluppare percorsi formativi e di tutoraggio specifici. Un progetto, dunque, che ponga al centro un nuovo rapporto tra bisogno e cura a governo e gestione pubblica, con la volontà di rappresentare un presidio di legalità sia per traslare pezzi di economia illegale verso un’economia legale e quindi dignitosa, sia per accompagnare l’emersione dal lavoro nero e la conquista di una piena e riconosciuta cittadinanza sociale per chi opera nel settore e per chi si rivolge a queste professionalità.

Infine, sia per i caregiver professionali che per le famiglie, strutturare percorsi di ascolto e supporto psicologico utili ad evitare l’isolamento e il rischio di burnout, anche mediante la partecipazione a gruppi ricreativi e di auto-mutuo aiuto.

Anche per i caregiver famigliari, figure che si trovano a svolgere anch’essi un ruolo informale ma determinante nell’efficacia dei percorsi di cura, questo modello dovrà inserire momenti di formazione e addestramento specifici, la possibilità di accedere a conseguimento di attestati e/o certificati dell’attività di cura svolta anche finalizzati al conseguimento della qualifica di OSS o di altre figure del repertorio regionale relativo all’area socio-sanitaria. A questo si potrà affiancare l’offerta di servizi a bassa-soglia quali gruppi di sostegno o di auto-mutuo aiuto.

Indispensabile, al fine di creare un sistema pubblico in grado di controllare, conoscere e monitorare l’andamento del mercato del lavoro in un settore così delicato, anche per esser in grado di migliorare la propria offerta e intercettare sempre più i bisogni emergenti delle famiglie e delle persone oltre che rappresentare a fondo un presidio di legalità, è la collaborazione tra i soggetti pubblici a vario titolo coinvolti nel percorso. Il dialogo, la messa a disposizione delle banche dati e il confronto costante tra Enti Locali, Centri per L’impiego, Inps, Azienda Usl di Modena, Regione Emilia-Romagna (chiamata a svolgere un ruolo anche normativo di grande rilievo), con il coinvolgimento attivo delle parti sociali e delle informazioni che sono in grado di veicolare, è elemento imprescindibile per la costruzione di un percorso condiviso, collaborativo e in grado di produrre sinergie e sperimentazioni di carattere innovativo, come la moltiplicazione dei punti di accesso al servizio sul territorio o l’integrazione tra le prestazioni già esistenti di carattere sanitario o socio-sanitario non domiciliari.

Per fare questo, l’incrocio dei dati tra prestazioni effettuate, soggetti che le erogano e potenziali assistiti in condizioni multidimensionali di non-autosufficienza deve diventare una prassi costante del sistema pubblico. Anche sul piano formativo, la messa in rete degli strumenti attualmente esistenti non potrebbe far altro che facilitare il raggiungimento dell’obiettivo di una vera e propria piattaforma unica dedicata alla formazione e all’aggiornamento di questi profili lavorativi.