Così il sindaco Luca Vecchi, al teatro Ariosto, per la Giornata nazionale della Bandiera e il 222° anniversario del Primo Tricolore:

“Cari ragazzi, perché è principalmente a voi che vorrei consegnare una prima riflessione. Quando il 7 gennaio del 1797, i rappresentanti delle città di Reggio Emilia, Bologna, Modena e Ferrara, si trovarono nella nostra città, per far nascere la Repubblica Cispadana, concretizzarono, per la prima volta, un sogno rivoluzionario: l’unità di una comunità, l’unità nazionale come grande aspirazione ideale. Nella Repubblica Cispadana quelle quattro città diedero forma ad un patto di cittadinanza fondato su diritti e doveri con le rispettive popolazioni. Fu un momento che consentì l’affermazione di principi come “libertà ed eguaglianza”, mettendo al centro “la virtù e l’unione dei cittadini”, “la saviezza del governo”, con il compito di realizzare la “pubblica felicità”.

E’ l’immagine di una generazione di patrioti, in gran parte giovani, che nel contesto storico di un Paese da sempre diviso, e ancora ben lontano dall’unità della nazione, riesce a farsi spingere da un sogno, che non si chiude nel recinto di casa, ma insegue un ideale, in cui la persona, la sua crescita, la sua dignità, viene collocata nell’ambizione di un mondo migliore.

E aggiungo, l’Italia di oggi deve guardare ai momenti migliori e talvolta a quelli più difficili della propria storia, quei passaggi in cui le grandi virtù della nazione hanno messo al centro l’aspirazione ad un sogno comune.

E’ successo il 7 gennaio, è successo nell’antifascismo, è successo con l’elaborazione della Costituzione, è successo quando, sotto la spinta del terrorismo degli anni ’70 o dello stragismo mafioso degli anni ’90, la comunità nazionale e le istituzioni non hanno parlato il linguaggio della divisione, del rancore e dell’odio, ma hanno scelto la mobilitazione collettiva, stimolando il miglior protagonismo civico e intellettuale.

L’Italia in quei passaggi, e in altri ancora, ha scelto e saputo essere una comunità di destino lasciando per un istante da parte ogni forma di divisione, di lacerazione di scontro fine a se stesso.

Reggio Emilia ha sempre vissuto con il giusto orgoglio e la necessaria consapevolezza la responsabilità di essere stata, in quel momento, crocevia fondamentale della Storia del Paese, portando da qui il proprio fondamentale contributo alla costruzione della nazione.

Quella bandiera è da allora punto di riferimento morale dell’unità d’Italia. E’ sempre bene ricordarlo, specie, in un paese in cui la ricerca di simboli e riferimenti unitari non è un esercizio semplice e naturale.

Salutiamo quest’anno con piacere l’arrivo a Reggio Emilia della mostra sulla Costituzione, ospitata presso gli spazi della ex Banca d’Italia, curata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che rappresenta i primi dodici articoli della costituzione e chiude oggi, nella nostra città, un tour che l’ha vista protagonista in dodici città italiane.

Ma un pensiero speciale vorrei portarlo per una grande personalità della storia della nostra città, che forse più di chiunque altro si impegnò perché Reggio Emilia fosse riconosciuta come città fondativa del Primo Tricolore. Un partigiano, deputato, ma sopratutto un grande reggiano che quest’anno per la prima volta non è più con noi: Otello Montanari. A lui dobbiamo tanto, e dobbiamo senza dubbio la riproposizione alla coscienza civica e politica del Primo Tricolore, un percorso che Otello Montanari intraprese con l’Associazione nazionale Primo Tricolore e che portò, anche grazie alla sua convinzione, all’istituzione della Giornata nazionale della bandiera promossa dall’allora Presidente Carlo Azeglio Ciampi. E’ nelle cose che l’impegno di Otello Montanari e dell’associazione possa e debba trovare un suo naturale proseguimento.

Abbiamo davanti un anno importante per l’Europa.

L’Europa è stata per lungo tempo il luogo al mondo in cui libertà politica, coesione sociale e benessere economico hanno trovato il punto più avanzato di equilibrio, garantendo dal ’45 in poi, come mai era accaduto prima, oltre 70 anni di pace.

L’Europa non può diventare “nemica” degli europei.

L’Europa dei popoli e non certo quella dei grandi poteri della finanza è stata a lungo l’utopia di un progetto possibile, la forza di un sogno, di una visione, unitamente alla concretezza di ciò che ha rappresentato il superamento dei confini, l’abbattimento delle distanze, la libertà di viaggiare, di sentirsi a casa in ogni stato europeo, di costruire il proprio futuro nei progetti Erasmus.

L’Europa, nella sua lunga storia, ha ricevuto l’influenza delle tre grandi religioni monoteistiche, la sapienza degli Antichi, della civiltà latina e greca, punto di partenza per la scoperta del Nuovo Mondo, teatro di straordinarie scoperte scientifiche. L’Europa dell’Umanesimo e del Rinascimento, l’ Europa che con il 1789, consegna alla civiltà le fondamenta etiche e morali di quei principi di libertà, eguaglianza e fraternità che sono alla base della nascita graduale dello Stato di diritto.

In tutto questo, l’Europa non è mai stato uno soggetto unico. Come ha scritto Mauro Ceruti, la diversità nell’unità, l’unità nella diversità.

L’uomo europeo è entrato nell’età moderna attraverso l’esperienza della diversità. La diversità non ha impedito l’incontro dei popoli, la loro integrazione, il superamento dei confini. La diversità ha reso possibile la contaminazione culturale e l’espressione creativa nell’imprenditoria, nella scienza, nell’arte, nella musica, nel diritto.

Questo è stata l’Europa, una comunità di destino in cui l’organizzazione unitaria ha fatto incontrare la diversità.

Quando l’Europa ha scelto l’omologazione, l’uniformità, o addirittura la cancellazione della diversità, lì ha fatto Auschwitz, Dachau e i Gulag ed è precipitata nel più profondo degli abissi.

“Teatro delle più grandi atrocità e culla della civiltà contemporanea”, come disse Edgard Morin, il sogno europeo può continuare a vivere se saprà essere consapevole della propria storia, se saprà affrontare le contraddizioni del presente mettendo al centro il futuro della persona, dei popoli, delle giovani generazioni in particolare il destino e la speranza degli strati più fragili e popolari della propria comunità.

Antonio Megalizzi, Valeria Solesin, Giulio Regeni, Fabrizia Di Lorenzo sono simboli e martiri, di una generazione con cui l’Italia è stata poco generosa, una generazione che si è messa in gioco, che ha deciso di crederci fino in fondo, che ha lasciato l’Italia, che ha sognato un mondo migliore. Quei ragazzi si sono trovati nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Sono loro l’anima di una Europa che può continuare ad essere l’utopia di un progetto possibile.

C’è una relazione tra l’Europa e le sue città. Tra comunità locali e comunità globali.

Il paese delle cento città ha ancora una grande riserva di autentico civismo, che sta proprio nella dimensione delle proprie comunità, dove il protagonismo dei cittadini, i legami di solidarietà, il lavoro dei corpi intermedi, il rapporto quotidiano tra tutte le istituzioni tiene viva una idea di collettività, un sistema di valori, un senso di appartenenza.

Carlo Cattaneo ci ricorda quanto, nella storia, le comunità cittadine siano state la “spina dorsale della nazione”.

Non è la prima volta, nella complessa vicenda storica di questo paese, che dai territori arriva quella spinta che genera collante per una intera comunità.

Nelle città contemporanee, forse anche più che in passato, si misura ogni giorno la tensione tra pressioni globali da una parte, e ricerca di significati e identità locali dall’altra; è nelle città che si misura il confronto tra bisogno di sicurezza e bisogno di libertà; tra paure e speranze, tra incontro e contaminazione e rifiuto e separazione. E’ nelle città che si gioca la sfida tra la ricostruzione di legami sociali e di vicinato e il rischio di crescenti fenomeni di solitudine.

Per questo, la capacità di alimentare ogni giorno dialogo istituzionale tra Governo e sistema dei Comuni, qualunque sia il Governo in carica, qualunque sia il decreto o la legge oggetto del confronto, è una condizione fondamentale del buon funzionamento e dell’unità del paese.

Reggio Emilia ha una storia politica e culturale di indubbio spessore. La città del Primo Tricolore, Medaglia d’oro della Resistenza, in prima linea nella fase Costituente. La città dei sette fratelli Cervi e di don Pasquino Borghi. La città di un’imprenditoria straordinaria e di una cultura del lavoro che ha accompagnato ogni momento, dal Dopo Guerra in poi, del cammino di una comunità uscita dalla miseria e dalle macerie della guerra per diventare uno dei territori più prosperi d’Europa.

La città dell’educazione e dei migliori servizi sanitari.

Ho incontrato in questi anni tante persone, note e meno note, in cui il loro impegno quotidiano è sistematicamente orientato al bene comune, al perseguimento di scopi, specialmente sociali, che vanno ben al di là del mero legittimo interesse individuale.

Viviamo un tempo di grandi incertezze e insicurezze che non di rado possono diventare autentiche paure. Abbiamo il compito di dare risposte alle tante insicurezze del nostro tempo, di costruire anche nuove risposte e nuove strategie ad un bisogno diffuso di protezione di tutte le componenti più fragili di una comunità. La sicurezza come ci ha giustamente ricordato il Presidente Sergio Mattarella si realizza con efficacia, preservando, e garantendo i valori positivi della convivenza. La sicurezza è la condizione prima di una esistenza dignitosa e serena. La sicurezza si nutre anzitutto di un bisogno primario di legalità, e della capacità dei cittadini di appropriarsi dei propri spazi, di veder riconosciuto il pieno rispetto delle regole, di sentirsi parte di una comunità.

Reggio non ha mai costruito le ragioni della propria convivenza nell’odio, nell’astio, nella cattiveria. La prevaricazione e la prepotenza del più forte sul più debole non è mai stata un sentimento diffuso e praticato.

Dovremmo essere consapevoli di ciò che siamo stati, nei punti di forza e nelle debolezze, perché cultura del lavoro e della legalità, la solidarietà e l’accoglienza, il valore della fragilità, lo spirito collaborativo del fare insieme, il volontariato sono tutte virtù civiche non non rappresentano tratti di identità politica, ma piuttosto i contenuti antropologici che hanno spinto i reggiani in diverse epoche a liberarsi da chi li opprimeva, a trovare la propria libertà e i propri percorsi di emancipazione, a superare miserie, ma anche ad affrontare le sfide più impegnative degli ultimi dieci anni. Ed è sempre con quello spirito, con lo spirito di Reggio Emilia che la città ha continuato il suo cammino e non si è mai arresa.

Reggio esce dalla crisi con uno dei tessuti manifatturieri più forti del paese. Nei prossimi anni lo sviluppo del sistema universitario nei locali dell’ex seminario, la crescita ulteriore della nostra sanità che porterà presto alla realizzazione del MIRE, l’avvio dei cantieri di importanti investimenti infrastrutturali attesi da lungo tempo. La valorizzazione del sistema culturale, ma al tempo stesso il lavoro quotidiano di ricucitura degli spazi e delle relazioni nei quartieri, la sfida ecologica e la più ampia domanda di protezione sociale. L’unicità strategica della Stazione Av e la sua affermazione, oltre ogni ragionevole aspettativa, è la porta di Reggio verso l’Europa e la grande opportunità della città per essere punto di riferimento del più ampio ambito medio padano.

Sono solo alcune delle sfide che abbiamo di fronte. Reggio ha alle spalle dieci anni difficili. Ed è per questo che anche in questo inedito frangente della storia contemporanea, Reggio deve stare in campo con la propria autonomia, con il proprio protagonismo, con la forza di un proprio autonomo progetto. Vi sono frangenti storici in cui l’identità di una comunità può avere rapide accelerazioni e non vi è dubbio che mai come oggi, da molto tempo a questa parte, misurarsi con la contemporaneità imponga una scelta di visione valoriale che collochi l’esperienza di una comunità come laboratorio originale di sperimentazione di livelli elevati di convivenza e qualità della vita. Perché in fondo, al di là delle diverse idee politiche, culturali, religiose, reggiani siamo e tali resteremo. Un unico popolo.

Reggio ce la può fare, con lo spirito del ragazzi del 7 gennaio, con quel “Fare insieme” che spesso ha reso possibile realizzare sogni in apparenza fuori scala.

Lo si può fare “senza inseguire le mode del proprio tempo, ma provando con lungimiranza ad anticipare i fondamentali di un altro tempo””.