Dal sito archeologico di Jebel Irhoud, in Marocco, sono venuti alla luce i più antichi fossili di Homo sapiens mai trovati: si tratta di reperti che risalgono a circa 300 mila anni fa e che portano quindi indietro di circa 100 mila anni la data di origine della nostra specie.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, è stata condotta da un team internazionale guidato da Jean-Jacques Hublin del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia (Germania) e da Abdelouahed Ben-Ncer del National Institute for Archaeology and Heritage di Rabat (Marocco), a cui ha partecipato anche Stefano Benazzi, docente al Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna.

I nuovi reperti non solo retrodatano di circa 100 mila anni la prima testimonianza fossile di Homo sapiens, ma rivelano inoltre una storia evolutiva complessa dell’umanità, che coinvolge con ogni probabilità l’intero continente africano.

Che la nostra specie sia nata in Africa è confermato sia dai dati genetici dell’uomo di oggi, sia da quelli emersi dai reperti fossili. Poiché però, fino ad oggi, i più antichi reperti di Homo sapiens – risalenti a un periodo compreso tra 195 mila e 160 mila anni fa – erano stati rinvenuti in siti archeologici etiopi, si pensava che gli uomini attuali fossero discesi da una popolazione umana vissuta in Africa orientale, circa 200 mila anni fa. La nuova scoperta in Marocco impone ora un cambio di prospettiva.

“Al contrario di quanto si era pensato fino ad oggi – spiega il paleoantropologo Unibo Stefano Benazzi – i nostri nuovi dati rivelano che l’Homo sapiens si è diffuso attraverso l’intero continente africano circa 300 mila anni fa. Quindi, molto tempo prima della cosiddetta dispersione ‘out-of-Africa’ della nostra specie, deve essere avvenuta una dispersione all’interno dell’Africa”.

Noto fin dagli anni ‘60 per i fossili umani che ha restituito e per i suoi manufatti appartenenti alla Media Età della Pietra (280 mila – 50 mila anni fa), il sito di Jebel Irhoud in Marocco è stato protagonista di un nuovo progetto di scavo iniziato nel 2014 grazie al quale sono venuti alla luce nuovi fossili di Homo sapiens. In particolare, si tratta di crani, denti e ossa lunghe appartenuti ad almeno cinque diversi individui. Utilizzando un metodo di datazione basato sulla termoluminescenza applicato agli strumenti di pietra bruciati rinvenuti negli stessi depositi, le pietre analizzate hanno restituito un’età approssimativa di 300 mila anni.

Ma che aspetto avevano questi nostri antichissimi antenati? Già allora, assomigliavano molto a noi. Utilizzando tecniche di analisi digitale all’avanguardia, il team di ricerca ha infatti mostrato come lo scheletro facciale dei fossili di Jebel Irhoud sia pressoché indistinguibile dal nostro, mentre la forma della scatola cranica resta invece ancora allungata e piuttosto arcaica. Dati, questi, che suggeriscono come la morfologia facciale dell’uomo moderno si sia probabilmente formata prima della forma del cervello. Alcune recenti ricerche che hanno messo a confronto DNA antico estratto da Neandertaliani e Denisova con quello degli uomini moderni, hanno infatti mostrato differenze nei geni che incidono sul cervello e sul sistema nervoso. I cambiamenti evolutivi nella forma della scatola cranica sono quindi con ogni probabilità legati ad una serie di cambiamenti genetici che hanno inciso sulla connettività, l’organizzazione e lo sviluppo del cervello dell’Homo sapiens rispetto a quello dei nostri parenti e antenati estinti.

Picture credits:

  1. Jean-Jacques Hublin, MPI EVA Leipzig
  2. Shannon McPherron, MPI EVA Leipzig, License: CC-BY-SA 2.0